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Fave, pecorino e guanciale: la provvista del sacrista.

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La ricetta di oggi, a giudicare dagli ingredienti, si preannuncia come un classico pasquale e in qualche misura lo è.

 

Fave e pecorino sono un classico dei picnic di stagione, e non fa niente se il tempo ci costringerà a farli stendendo una tovaglia sul pavimento: per quanto mi riguarda è proprio così che ho fatto uno dei picnic più divertenti di tutta la mia vita.

L’idea della ricetta, però, mi è nata da un altro classico. Un classico dell’opera, per la precisione TOSCA di Giacomo Puccini.

All’inizio dell’opera mentre Cavaradossi, amante di Tosca, dipinge nella chiesa romana di Sant’Andrea della Valle il sacrestano viene a portargli il cestino del pranzo. Il pittore offre questo pranzo al suo amico Angelotti, antipapista evaso da Castel Sant’Angelo che si nasconde in una cappella della Chiesa. Quando il perfido Scarpia, capo della polizia del papa, si accorge degli anvanzi del cestino nella cappella pronuncia la fatidica frase “La provvista del sacrista d’Angelotti fu la preda”.

E allora, la provvista del sacrista che ovviamente non può che essere piena di cose tipicamente romane. Come ogni provvista è contenuta in un cestino, tipo quello dell’orso yoghi (che un po’ il fisico da cantante lirico ce l’aveva) questa volta fatto con pasta di pane per essere mangiato pure lui.

All’interno del cestino, fave e pecorino ma trattate un po’ come si fa per l’hummus: le fave sgusciate e private della pellicina sono state fatte insaporire nel grasso lasciato dal guanciale fatto soffriggere, poi passate con un minipimer insieme a del pecorino romano e una generosa grattatina di pepe nero. Con il composto così ottenuto sono stati riempiti i cestini, su cui è stato poggiato il guanciale rosolato e, a guarnizione, delle chips di parmigiano che, per amore di sincerità, hanno sostituito quelle originarie previste col pecorino grattugiato che però, una volta ridotto a chip, non è altrettanto croccante e soprattutto è così salato che di bicchieri di vin di Spagna Scarpia e Tosca ne avrebbero tracannati almeno una mezza dozzina.

E sulle note della Tosca, e col spore delle fave col pecorino,  i vostri galletti Mauro e Massimo vi augurano Buona Pasqua, con la promessa di una nuova inforicetta per i prossimi giorni di ponti primaverili (chi li fa…)

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Fragole Forever: il dessert Across the Universe.

 

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Ormai lo sapete che qui a Odio il Brodo alterniamo le nostre inforicette a ricette che raccontano una storia.  Quella di oggi parla di un quattro ragazzi di Liverpool, di una regista dal talento visionario e del frutto che rappresenta il profumo, il colore, il gusto della Primavera.

Le fragole sono l’elemento iconografico principale di un film discusso, discutibile ma a mio parere straordinario (amo le cose discutibili più dei capolavori dichiarati) intitolato appunto Across the Universe, come questo dessert e ovviamente anche come una delle canzoni dei Beatles che definire “colonna sonora” sarebbe riduttivo.

Le atmosfere dei quattro di Liverpool sono utilizzati da Julie Taymor, la regista, per narrare una storia che parla di giovani, di ribellione, di amore, di anni sessanta… e le fragole inchiodate, esplose, maltrattate che il giovane protagonista dipinge ricorderanno sicuramente ai cinefili un altro film, Fragole e Sangue, dedicato ai movimenti studenteschi contro la guerra del Vietnam.

Ma siccome non siamo qui a parlare (solo) di cinema, veniamo alla ricetta. Avevo a disposizione delle fragole meravigliose, succulente e profumate, e mia sorella mi aveva appena portato la sua  leggendaria marmellata di arance (senza bucce perché secondo lei, e non a torto, altrimenti sembra sempre di mangiare canditi) .

Così ho messo sul fondo la marmellata di arance, e appena sopra uno strato di crumble alla vaniglia (potete anche sbriciolarci dei biscotti, se non ne avete tempo: consiglio i Digestive) su cui si poggia un semplicissimo frullato di fragole insaporito con appena un goccio di aceto balsamico. E a trionfare su tutto, una fragola viva, bellissima, da mordere dolcemente con le labbra fino a farne uscire il succo prima di iniziare il viaggio “Across the Universe”, fra Strawberry Fields (Forever) e Marmelade Sky.

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Barbabietola e cavolfiore: povertà ma libertà!!!

povertà ma libertàLa ricetta di oggi ha, come sempre, una sua storia da raccontare.

E voi lo sapete che quando c’è da raccontare la parola, fra i due galli di Odio il Brodo, spetta a quello che non è capace di disegnare nemmeno sotto tortura e che invidia la capacità del creatore di inforicette…

La storia che vi voglio raccontare oggi è assolutamente personale, e racconta delle donne più importanti della mia vita, attraverso gli ingredienti utilizzati in questa ricetta che sembra un dolce a vedersi, ma che è concreta e vitaminica come solo le donne più vere sanno essere.

Iniziamo dalla barbabietola, che altri non è se non la mitica nonna che gestiva da sola una trattoria, e di cui un giorno vi racconterò a lungo. Era rossa di capelli, e aveva tutte le caratteristiche di caparbietà e di tigna che venivano attribuiti a questa tinta pilifera (che era anche la mia, e questo vorrà dire qualcosa) , con in più la capacità di arrossire “come una barbabietola” (lei diceva in dialetto biedrav) quando doveva dire qualcosa che la irritava molto. Ma non taceva: faccia rossa, ma patire mai era uno dei suoi motti preferiti.

Così la barbabietola l’ho fatta bollire insieme a un paio di patate, per stemperare il suo rosso cupo in un colore più chiaro e l’ho insaporita con qualche pizzico di sale dell’Himalaya pestato nel mortaio insieme a qualche grano di pepe rosa.

Con il cavolfiore siamo a mia mamma,  che lo chiamava “quel fiore del cavolo” già decenni prima che uscisse il libro “Trattato di culinaria per donne tristi” dove è presente la ricetta del cavolfiore alla nebbia che consente di sprofondare nella tristezza  come ogni tanto è salutare fare. Siccome però la tristezza totale non fa parte del mio modo di essere, insieme al cavolfiore ho fatto bollire un porro per fare in modo che trasmettesse un po’ del suo carattere alle infiorescenze bianche.

Con l’acetosella, uno dei miei fiori eduli preferiti, parlo di mia moglie: i piccoli fiori rosa che hanno appena iniziato a decorare questa specie di trifoglio sono la bordura del vialetto che porta all’ingresso della nostra abitazione, e per me rappresentano l’aria di casa.

E infine, i cubetti di avocado per ricordare il Paese da cui proviene la nostra señorita, nata in centroamerica e con noi ormai da dieci anni.

Spero che vi piaccia questo mio racconto, e che proviate anche voi a realizzare questa ricetta che, fra l’altro, è anche molto pasquale.

Dimenticavo, il nome: un omaggio, oltre a quello che ogni giorno che passa diventa il mio personale modo di pensare, a una fra le frasi preferita della mamma di mia moglie, che a diventare mia suocera non ha fatto in tempo per un pelo.
Buon appetito anche a lei.

 

 

 

Maiale sarà lei! Il lato suino del Rustin Negà.

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Il filetto di maiale è uno dei grandi classici della cucina di casa mia: l’ho fatto in crosta una settimana prima che lo proponesse Masterchef e l’altra sera, con grande sorpresa, l’ha preparato mia moglie.

Schermata-03-2456730-alle-12.18.41E l’ha fatto seguendo la mia ricetta del milanesissimo rustin negà (arrostino annegato, per i non milanesi), un piatto che da noi è anche un piatto vero e proprio, dal momento che l’abbiamo nella collezione dei “piatti del buon ricordo” di cui siamo andati per anni a caccia nei mercatini dell’ usato.

Praticamente il filetto di maiale è stato infarinato, poi fatto rosolare in padella con olio, burro e rosmarino dopodiché è stato, appunto, annegato ma non nel vino bianco come la ricetta originale: il sapore più vigoroso del maiale (e il fatto di averne una mezza bottiglia avanzata dalla sera prima) ci ha suggerito un vino rosso abbasanza corposo. Così nella successiva cottura lenta, circa un’oretta, oltre a glassarsi come nella ricetta originale ha preso un bel colore bruno all’ esterno.

Nel frattempo bollivano le patate, che poi sono state fatte saltare nel fondo di cottura dell’ arrosto (gras de rost, in milanese, significa anche persona pedante e difficile da digerire, e questo vorrà pur dire qualcosa…).
Così, messe in forma le patate, ci abbiamo adagiato sopra le fettine del nostro filetto e, in cima come la classica ciliegina sulla torta, una ciliegina di mostarda, che una volta consideravo cibo tipicamente da papà e che, in effetti, da quando papà lo sono diventato davvero, ha iniziato a piacermi.
Schermata 03-2456729 alle 21.06.03Ma di questo parleremo un’altra volta, dopo aver fatto piangere i bambini con una perfida vignetta su una delle loro beniamine che a me, invece, sta cordialmente antipatica a causa del suo muso che mi ricorda… No, non ve lo dico. ma pensateci la prossima volta che vi capita di andare in un bagno pubblico e vedere i disegni sulle pareti.



Il mio riso venere Totoro

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Odio il Brodo ama il carnevale, e lo festeggia vestendo come uno dei suoi cartoni animati preferiti (Il Mio Vicino Totoro) un piatto di riso venere… con sorpresa.

Fate bollire il riso venere, conditelo con un filo di olio d’oliva emulsionato con zenzero e sale e decoratelo utilizzando una foglia di insalata al posto del suo ombrellino vegetale, due fette di oliva  per le pupille e sottilette per fare occhi, bocca, e pancia.

E nella pancia, sotto la sottiletta, potete mettere quello che volete: io ci ho messo dei gamberetti saltati in agrodolce , e quando li ho mischiati al riso venere erano buonissimi.

Ah, e ovviamente, essendo carnevale, c’era anche del coriandolo (ah ah ah, che simpatico che sono).

Bacon: chi l’ha detto che con la cultura non si mangia?

baconL’altro giorno stavo guardando un interessantissimo documentario su SkyArte, dedicato alla rappresentazione della carne nella storia dell’ arte. E non si riferivano alle carni opulente delle modelle di Rubens o a quelle macilente di Klimt, ma proprio alla carne quella che si mangia.

Così si passava dal bue macellato di Rembrandt a una visita dal macellaio per capire che in effetti Rembrandt sapeva come si trattava anche la carne più pregiata, da una ricetta di stufato presa dal diario di Toulouse-Lautrec fino a Francis Bacon che ha perfino usato due mezze carcasse di bue come fossero ali.

Ma col Bacon si fa anche di peggio: Prendete l’artista del mosaico Jason Macier e il suo Kevin Bacon made of Bacon…

In fondo in fondo, noi siamo stati ancora onesti a realizzare col bacon questi cestini (sempliccissimi da fare: basta coprire delle formine in silicone e metterle in forno fino a quando la pancetta diventa croccante poi lasciare che si indurisca raffreddandosi) in cui abbiamo inserito un’ insalata alla siciliana con finocchi, arance e mele verdi, condia con una spruzzatina di limone.

Così, tanto per dimostrare che con l’arte si può anche mangiare, e ci si può anche divertire se la si osserva come una cosa che può far parte della nostra vita quotidiana. Senza aspettare che di bellezza parli Sanremo, fra l’altro…

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La Tajine, le Droghe e Rachida.

foto (16)Va bene, lo ammetto. faccio uso di droghe. Ultimamente anche un uso smodato, specialmente da quando ho scoperto che fanno bene al morale, e anche alla salute. Sì perché è ormai da qualche anno che ho la mano leggera con il sale, e la pressione è effettivamente migliorata,  e pesante con tutte quelle spezie che  in tempi non sospetti venivano chiamate, appunto, droghe.

E’ per questo che ci sono ancora in giro negozi, i pochi rimasti ormai visto che tutti fan la spesa nei supermercati, che si chiamano drogherie, che cosa credete? Non è  che potete andare là e comprare erbe psicotrope o polverine come quelle cantate da Pollon Combinaguai...

La mia droga non si chiama Julie, dotta citazione cinefila per bilanciare il cartone animato di prima, ma si chiama, udite udite “SUK” oppure “LA SAPORITA”: le usava anche mia mamma, e adesso che le ho ritrovate non le mollo più.

Così, visto che le avevo nel mio cassetto  magico, mi sono lasciato ispirare dall’ ultima puntata di Mastechef e mi sono lanciato nella preparazione di una tajine che nemmeno Rachida.

Questa donna che si è trasformata in un meme vivente, provate a digitare Rachida e vedrete quante immagini del suo viso dall’ inesauribile “mimetica facciale” come diceva un mio amico accompagnate da frasi più saporite dei piatti marocchini.

La tajine che uso me l’ha regalata mia moglie un Natale di qualche anno fa, è elegante, blu intenso (non mia moglie, intendiamoci: la tajine) e quindi fa sempre bella mostra di sè in cucina anche quando non la uso.

L’altra sera, invece, ci ho messo un po’ di olio e di burro, poi ci ho fatto rosolare i bocconcini di petto di pollo che prima avevo messo in u nsacchetto  infarinato con un mix di farina e, appunto, la mia droga LA SAPORITA. Poi ho tolto i pezzetti di pollo, ho aggiunto gli spinaci, ho rimesso il pollo e lo coperto con un mix di verdure (confesso: le ho comprate surgelate e già tagliate per fare prima, e per spendere di meno… zucchine e cornetti non sono di stagione e in alcuni negozi te li montano direttamente su oro).

Una bella spruzzata di zenzero, e poi a cuocere a fuoco lentissimo con la tajine coperta per circa 40 minuti, girando ogni tanto perché, come direbbe la donna più odiata ( a mio parere a torto: lo sapete che adoro i cartoni animati…) di masterchef: “Guardami che si no bruciano le tajine!”

Quando tutto è pronto, un bell’ anello di cous cous e in mezzo, la nostra tajine con a parte, per i più temerari, una ciotolina con la harissa, la salsa piccantissima tipica della cucina del Marocco. E se fosse l’abuso di  Harissa a provocare le espressioni che rendono Rachida così simile a Wolfie, il cartone animato di Tex Avery? Intanto, guardiamoci questo capolavoro che non fa mai male e godiamoci la tajine col cous cous.


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Fritta…Tigre: un antipasto rapido, gustoso e ruggente

 

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Settimana scorsa insieme agli amici di Cucinare Meglio siamo stati all’evento con cui Tigre, il formaggino che tutti una volta o l’altra abbiamo sciolto nella pastina da piccoli cercando di dimenticare che fin da piccoli odiavamo il brodo, festeggiava i suoi 90 anni.
Un evento tranquillo e familiare, dove ci hanno mostrato il vecchio spot ( se non mi sbaglio l’aveva girato il regista Roberto Cavaciuti, con cui qualche volta ho lavorato anch’io in una vita precedente, e che saluto) e anche le promozioni più recenti fatte con La Pina e Diego.

E mentre scorrevano le immagini e guardavo il packaging celebrativo, che riprende l’originale del 1924, facevo il mio evento personale  personale dedicato al felino ruggente con la consueta, folle playlist che mi ritrovo sempre nel cervello per ogni cosa: dal buon vecchio Satchmo di Tiger Rag (brano quasi coetaneo del formaggino), passando per il Rocky di Eye of the Tiger fino a Katy Perry e al suo ROAR sulle cui note mi si sono materializzate nel cervello procaci ragazze vestite da tigre con in mano un vassoio di queste frittatine con formaggio Tigre, ricotta, curry e , ovviamente uova.

Così quando sono tornato a casa le ho rifatte, e potreste provarci anche voi: due uova, cinque formaggini, una ricotta piccola e curry quanto ne volete. Per me non è mai abbastanza…

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Mellow Yellow: il mio risotto giallo manga…

risottomellowIl risotto giallo alla milanese dovrebbe essere servito all’onda, cioè mantecato a dovere e morbido al punto giusto. Ma c’è una nuova onda gialla che da qualche anno invade Milano, almeno un paio di volte l’anno: è uno tsunami che arriva direttamente dal Giappone e che vede un numero sempre crescente di appassionati vestirsi come gli eroi dei Manga ( per chi ancora non lo sapesse ancora, i fumetti giapponesi che si leggono al contrario da destra verso sinistra).

Una delle occasioni per farsi travolgere da quest’onda è il Festival del Fumetto di Novegro (Milano-Linate): io domenica ci sono stato, e dopo aver incontrato Sampei il pescatore (Tsurikichi Sanpei), Lady Oscar (Berusaiyu no bara), l’ispettore Zenigata (Zenigata keibu) e Lupin III (Rupan Sansei), Fairy Tales e Sailor Moon (Bishōjo Senshi Sērā Mūn) mi è venuta l’idea di dare un tocco orientale al tradizionale risotto giallo allo zafferano, e un nome che facesse onore a Yellow Kid, il primo fumetto della storia.


Così ho preparato il mio classico brodo di verdura, un soffritto solo di cipolla e dopo aver fatto tostare il riso l’ho sfumato… con il succo di mezzo limone. Poi ho aggiunto un mestolo dopo l’altro il brodo in cui ho sciolto una bustina di zafferano (fra l’altro, vicino agli scaffali dove lo vendono manca davvero poco che mettano dei bussolotti come per entrare in banca: ci avete fatto caso?). Ancora giallo, e questa volta davvero orientale, con una buona dose di curry: io ci vado già piuttosto pesante, ma potete dosarlo voi a piacere.
A cottura ultimata, ho mantecato con una crescenza leggera e l’ho servito , altro omaggio al mondo del fumetto, con due orecchie (stile Totoro) fatte di chips di grana padano.
Avevo ospiti piuttosto difficili, milanesi D.O.C. per cui il risott giald, risotto giallo, è quasi una fede e devo dire che l’esperimento ha ottenuto un corale arigatò (ありがとうございます, Arigatou gozaimasu: Grazie molte, ndr), spero come ringraziamento giapponese e non come richiesta alternativa di un piatto di pasta, come nello storico spot di Fellini per Barilla .
Nel dubbio, mi sto già prenotando per l’appuntamento con Cartoomics per un nuovo tuffo nel manga… e magari per rivisitare pure la cotoletta!

Il brasato della Memoria

Brasato in cotturaCi sono piatti che non si improvvisano all’ultimo minuto, che necessitano di una preparazione lunga e di una cottura lenta e importante. Non li si possono certo preparare tutti i giorni, ma quando ti chiedono di essere preparati (perché a volte sono davvero loro che te lo chiedono) devi dedicarci tutto il tempo che occorre, e prenderti la preparazione come un momento per riflettere su cose importanti che invece, di solito, occupano il tuo cervello meno delle partite di Candy Crush. E’ il caso del brasato, che ho preparato oggi come mio modo personale di celebrare il giorno della memoria. Non che sia un piatto kosher, il mio macellaio di fiducia non lo è, ma sicuramente aiuta la riflessione e il ricordo sia durante la preparazione, sia dopo averlo consumato restando pigramente seduti sul divano. Come sempre, non sarà una ricetta precisa quella che vi darò, ma una suggestione con alcune riflessioni, a volte puramente personali, altre un po’ più generali.

foto 1FASE 1 – La marinatura e il dottor Dulcamara

La carne va scelta con cura, preferibilmente chiedendo il “cappello del prete” con la sua caratteristica venatura di grasso che lo taglia a metà. Perché il grasso, sciogliendosi parzialmente durante la cottura, va a infiltrarsi fra le fibre della carne contribuendo a renderla più tenere a saporita. Si lardella il pezzo di manzo inserendogli delle sottili scaglie di aglio e poi lo si lascia a macerare tutta la notte con una bella bottiglia di vino rosso (questa volta abbiamo scelto il pinot nero) carote, sedano, cipolla, porro, pepe… e un mix di spezie che non vi dico perché non si può mica sapere tutto. Mentre i sapori si mischiano potete fare quello che volete. Io ho ascoltato l’Elisir d’Amore di Donizetti, in diretta dal Met di New York, commentandolo online su un gruppo di discussione di amici melomani. E qui è partita la prima riflessione sulla memoria: tutta la storia dell’opera ruota intorno a un miracoloso elisir che altro non è se non un vino rosso come quello che ho usato per il brasato. Solo che un imbonitore, il dottor Dulcamara, lo spaccia per un rimedio universale contro ogni tipo di male fisico e morale (fra l’altro, in questa versione lo fa mostrando una parente delle nostre infografiche).
Ecco, forse dovremmo stare più attenti a tutti questi imbonitori che cercano di rifilarci pozioni farlocche per risolvere problemi che invece, anche nell’opera, si risolvono semplicemente guardandosi meglio dentro. Io personalmente ogni volta che qualcuno mi promette i suoi miracoli, penso a Dulcamara e mi viene da ridere. E non prenderli troppo sul serio impedisce a questi personaggi di portare avanti i loro piani.

foto 4FASE 2 – La cottura e la palla di pongo

Quando hai lasciato a marinare il brasato per tutta la notte, la cucina al risveglio sa di spezie e vin brulè, ma in modo molto più discreto del profumo che si sente nelle baite di montagna o fra le bancarelle dei mercatini di Natale. Allora prendi le verdure, le fai scottare con l’olio nella pentola di ghisa e fai rosolare la carne poi aggiungi il vino e metti sul fornello piccolo per almeno tre ore. Devi solo girarlo di tanto in tanto, anche solo per sentire il profumo che sale aprendo il coperchio, e hai tutto il tempo per fare un’altra riflessione mentre gli altri in casa ancora dormono. E la riflessione nasce da un ricordo dell’ infanzia, che mi è tornato alla mente ascoltando una delle mie trasmissioni preferite, Melog di GIanluca Nicoletti , che in una puntata di fine anno parlava di razzismo facendo un esempio che è stato fra le mani di tutti noi da bambini. Quando ci regalavano il pongo era tutto diviso in colori precisi e ordinati, poi con l’uso si formavano palle multicolori, di volta in volta sempre più sfumati l’uno nell’ altro fino a diventare un generico, indistinto marroncino. Certo, sarebbe stato interessante mantenere intatta la purezza dei colori originali, ma avremmo dovuto non giocarci per creare qualcosa di nuovo. E probabilmente anche nella società è così: se non mischiamo i colori non creiamo niente di nuovo, e alla fine i colori si seccano, invecchiano e diventano non più utilizzabili. Sicuramente succede così nel brasato: passate le tre ore, anche quattro, è il momento di frullare le verdure che, appunto, diventeranno un mix profumato, indistinto e golosissimo di colori e di sapori.

image (1)FASE 3 – La polenta e il sole

Se pensate che stia a spiegarvi come si fa la polenta, scordatevelo: ci sono istruzioni chiarissime su tutte le confezioni della farina gialla. Una sola raccomandazione, quella di non utilizzare le polente veloci altrimenti addio agli ultimi 40 minuti di meditazione. Che ispirandosi al colore della polenta è rivolta al sole, simbolo comune a tutte le civiltà anche sotto forma di svastica, che qualcuno ha modificato per farne il simbolo del suo orgoglio e della sua sete di potere. Ma i simboli sono più potenti di ogni formula politica, e il sole tramonta su ogni tipo di impero: il problema è quello che succede fra l’alba e il tramonto. E’ lì che dobbiamo vigilare, per fare in modo che nessuno si monti la testa… e che non si formino grumi nella polenta. Che adesso è pronta, e allora stop alle meditazioni e via, una fetta dopo l’altra.