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Curiosità, spunti, suggestioni per fare qualcosa di nuovo in cucina

Mondo in Pentola, il gusto di stare insieme.

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Lo sapete da tempo: Odio il Brodo ama i falafel, del resto ne abbiamo fatto anche una inforicetta…

Alla festa di Natale di Monforte c’erano quelli preparati da Mondo in Pentola, progetto di catering multiculturale, nato da un corso di cucina, nato all’ interno di un progetto per il recupero delle periferie di Milano.

Detto così sembra complesso, ma è molto più semplice e coinvolgente nelle parole di una delle responsabili, Ersilia D’Antonio:

“Tutto è nato con Dencity, progetto per il recupero della periferia del Giambellino, in cui è stata inserita la possibilità di fare un corso di cucina multietnica gratuito che dava crediti formativi con certificazione htcp. Grazie a un accordo col comune abbiamo ottenuto la possibilità di utilizzare che ha dato una cucina professionale in via Fleming che, dopo un processo di autoselezione fra i vari candidati, ha ospitato undici donne provenienti da ogni parte del mondo: Albania, Romania, Costa Rica, Cuba, Eritrea, Senegal, Spagna, Italia, Giappone. “

Perché il cibo unisce, e aiuta a superare anche le barriere etniche e culturali: “Lavorando fianco a fianco le une con le altre” prosegue Ersilia D’Antonio “le nostre cuoche hanno imparato a vincere la diffidenza e il razzismo, perché esiste anche fra gli immigrati, che spesso nascono proprio dalla mancanza di scambio e di conoscenza dell’ altro. Ognuna ha trasmesso all’altra le specificità della sua cultura gastronomica, in un concetto di cucina lontano mille miglia dall’ idea generica di “fusion” ma vicinissima all’esperienza quotidiana di una cucina dove, più che le ricette e le alchimie , contano la familiarità e l’esperienza quotidiana all’ interno della cucina che l’incontro fra varie culture può portare fra i fornelli”.

Così, mentre alcuni imparavano a cuocere, appunto, i falafel, altre chiedevano una cosa che per noi è quasi scontata: come si fa a fare il, sugo.

Perché l’integrazione passa anche dalla gola, e progetti come questo valgono probabilmente quanto tutta Expo2015. Ora che Mondo in pentola si propone di diventare un servizio catering a tutti gli effetti, speriamo che qualche azienda che organizzerà eventi in occasione di questa manifestazione si ricordi di loro per il buffet. Magari guardando in queste foto quello che hanno preparato al mercato di Lorenteggio, in occasione della presentazione del gruppo.

Vaniglia con purea e chutney di albicocche.

Screenshot 2014-12-22 22.11.58Vi dovevo una ricetta dal mio menu di Natale (quella degli alberelli non ve la dò, troppo facile: fate dei cestini di pasta brisè, mettete nella siringa da pasticceria un impasto di ricotta-uova-erbette-parmigiano da torta salata, decorate con bacche rosa e il gioco è fatto) e siccome si avvicina l’ultimo giorno del 2014 (e meno male…) vi parlo del mitico vaniglia.
Insaccato tipicamente brianzolo, che fa il paio con la bógia di cui vi parlerò in altra occasione, il vaniglia da sempre sostituisce sulla mia tavola il più grasso zampone, l’abusato cotechino e la mia adorata mortadella di fegato, che però riconosco sia un po’ troppo saporita per adeguarsi a un menu che si vuole (chissà comne mai) raffinato come quello di capodano.
Come è ovvio immaginare, il vaniglia si chiama così perché l’ impasto (più magro di quello del cotechino tradizionale: ogni salumeria ne ha uno, io prediligo quello del salumificio Bonfanti) prevede anche una bacca della pianta aromatica solitamente utilizzata per i dolci.
Lo si bucherella con i rebbi di una forcehtta, poi lo si chiude ben bene in una pellicola di alluminio e lo si lascia bollire per un paio d’ore.
Il tempo di lessare le patate da cucinare poi in purea (devo ricordarmi di comprare lo schiacciapatate, l’ultimo l’ho rotto la sera di natale preparando i passatelli), su cui poi si sdraierà la fetta di vaniglia che quest’ anno ha un tocco etnico in più.
Assaggiatelo con il chutney di albicocche che trovate sul sito di Tipika Food: del resto fra due giorni inizia l’anno dell’ Expo, e se non siamo internazionali giù da subito poi tocca correre per adeguarci. Oltre che per smaltire pranzi e cenoni.

 

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Ruben, un ristorante per gente speciale.

Screenshot 2014-12-17 23.15.56C’è un ristorante a Milano dove ogni sera cenano oltre 200 persone: famiglie con bambini,  uomini divorziati, coppie che lavorano,  cinquantenni italiani in libera uscita dal lavoro…

Detto così sembra uno  dei tanti ritrovi presentati nelle rubriche dedicate alla vita mondana in città, ma Ruben è tutta un’ altra cosa. Ruben dà da mangiare a tutte quelle persone che rappresentano il volto nuovo della povertà, e che magari fino a poco tempo fa erano soliti frequentare proprio quei locali che fanno pulsare il cuore di quella che un tempo veniva definita “la Milano da bere”.

Ora il cuore pulsa per altri motivi: la paura di non aver niente da dare da mangiare ai propri figli, l’ angoscia di trovarsi in una situazione che non si sa controllare,  il panico scatenato da  una condizione economica che non rientrava nelle prospettiva del proprio futuro e che si fa fatica ad accettare.

Perché Ruben,il ristorante creato dalla fondazione Ernesto Pellegrini,  con le sue cene a un euro si rivolge a tutta quella nuova fascia di povertà creta dalla lunga crisi in cui tutti stiamo passando: scordiamoci gli homeless poetici ed eroici della Londra di Dickens o della Milano  dei Tecoppa, i tossicodipendenti degli anni settanta e ottanta, gli immigrati sui barconi.

Sui tavoli di Ruben la povertà ha il volto stanco e sconfitto del vicino di casa che ha perso il lavoro e che i giornali etichettano come esodato, come se questa parola dal suono bizzaro da entomologo facesse scomparire la concreta difficoltà di mettere insieme il pranzo con la cena.

E il disagio ha il volto del padre divorziato che, quando gli va bene,  magari è tornato a dormire dai genitori nella cameretta di quando era ragazzo, e che quando ha uno stipendio lo deve utilizzare per pagare gli alimenti ai figli.

Come ci ha detto il responsabile della fondazione Ernesto Pellegrini, Davide Lo Castro: “sono persone che non hanno dimestichezza con le associazioni, che hanno vergogna a chiedere aiuto e comunque non sanno come farlo. Per questo abbiamo creato una rete che comprende le tradizionali associazioni cattoliche, le nuove figure del volontariato e dell’ assistenza e ora anche i servizi sociali della città. Più allarghiamo la rete, più persone possiamo sperare di intercettare e aiutare”.

Persone che non sempre hanno la forza di ammettere il loro effettivo bisogno di essere aiutati, proprio come quel Ruben che ha dato il nome al ristorante, la cui vita è narratra in poche ma sentite righe scritte proprio da Ernesto Pellegrini:” Ruben aveva lavorato per tre generazioni nella mia famiglia, poi in un momento difficile si è ritrovato senza casa, senza lavoro e io, che non ho avuto modo di aiutarlo, ho sempre ricordato il suo ricordo nel mio cuore. Un uomo buono, un gran lavoratore  che non è riuscito ad affrontare un cambiamento fore duro. Oggi è nel suo ricordo che attraverso il ristorante voglio aiutare chi si trova in un momento di difficoltà e di disagio, e che nel nome di Ruben trova non solo cibo, ma anche aiuto, ascolto e una motivazione a riprendere in mano la propria esistenza, sapendo di poter contare su qualcuno. E’ il mio modo di restitutire un poco di quello che la vita mi ha dato”.

Per saperne di più su Ruben, sul ristorante e sulla fondazione Pellegrini, seguite questo link.

E settimana prossima vi racconteremo un’altra storia di Natale, perché noi di Odio il Brodo siamo sempre più convinti che parlare di cibo non sgnifichi soltanto descivere ricette e a fotografare piatti, ma raccontare le storie che si nascondono dietro un piatto, un ristorante o, come faremo nel prossimo post, un corso di cucina davvero particolare. Perché settimana prossima è Natale a Milano come in tutto il mondo…

 

 

 

#unstartuttanuova e una star tutta nostra.

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La sede nuova della Star in via Imbonati  a Milano l’avevamo già vista quando la scorsa estate siamo andati a parlare del’ iniziativa Meglio Star, ma questa sera l’abbiamo vista davvero bene e abbiamo apprezzato un sacco di dettagli che ci erano sfuggiti.

Dalla sala arredata con una scultura sospesa di mestoli di legno fino alle pareti che ospitano la classica “signora dei dadi” rivisitata con lo stile di famosi artisti contemporanei e ristoro che diventa una vera e propria sala riunioni informale dove incontrarsi per discutere di nuovi progetti.

Perché in questa nuova sede nessuno ha una scrivania fissa: ci si mette dove si vuole quando si arriva e questo facilita lo scambio delle idee e aiuta ad evitare le fossilizzazioni. Caratteristiche importantissime per un’azienda che vuole fare dell’ innovazione di prodotto la sua arma vincente.

Nel corso della serata, infatti, ci hanno presentato i nuovi prodotti in uscita da gennaio: un nuovo gusto dei nudolini Saikebon (ai gamberetti, per la precisione) che hanno conquistato il mercato con una prodotto prima praticamente assente dagli scaffali, una interessante variante di prodotto sempre della linea Saikebon da gustare asciutta e il ragù ai pomodori datterini.

Tutti prodotti che sono poi stati testati nella spettacolare cucina che domina il piano ammezzato del palazzo e docve per una sera ha regnato sovrana Tiziana Stefanelli. La vincitrice della seconda edizione di Masterchef Italia ha immediatamente voluto a farle da brigata i “nostri” A Tavola con Willi , Mapy le sue ricette, in Cucina con Enza e la new entry i sapori della mia cucina.

I tre si sono abilmente destreggiati fra le preparazioni originali e rapide create da Tiziana e dai “resident chef” di Star: finti sushi e involtini primavera di Saikebon, pomodori ripieni e arancini di pan carrè al ragù di datterini.

Le ricette le lascio raccontare agli altri ospiti,  i ringraziamenti a Star (anzi, a #unastartuttanuova) li faccio subito. Quanto a Tiziana Stefanelli ci auguriamo di ritrovarla presto: ormai la consideriamo #unastartuttanostra 😉

 

In cucina c’è luce. E anche i mustaccioli…

Screenshot 2014-12-10 10.43.13E’ da oltre trent’anni che pendolo in treno fra il mio paesello e Milano, e ieri sera ho notato una cosa insolita.  Ogni anno, dopo sant’Ambrogio,  le case via via sempre più numerose che si affacciano sui binari iniziavano una dopo l’altera a punteggiarsi delle luci colorate degli alberi di Natale.

Ieri sera no, ieri sera se ne contravano soltanto uno, o due: spero in un ritardo, ma ho la nettissima impressione che quest’anno di luci ne saranno accese ben poche. Siamo tutti incupiti, intristiti, arrabbiati, preda della paura di perdere quel poco che abbiamo che nemmeno ci accorgiamo del valore simbolico di quelle luci accese sui nostri balconi o alle nostre finestre.

Ancora prima che l’Europa diventasse cristiana, a Roma durante il solstizio d’inverno si festeggiava la festa del “Sol Invictus”, del sole che tornava a riprendere pèossesso del cielo dopo la notte più lunga dell’ anno.  Non dovremmo scordarcelo mai:  le luci di Natale sono il simbolo della rinascita dopo il buio, e così anche le candeline che nei paesi nordici incoronano la testa delle ragazzine vestita da Santa Lucia.

E qui arriviamo alla storia di Natale di oggi, quella di una Lucia che abbiamo conosciuto grazie ad alcuni post di Radio Siani: questa “radio della legalità”, nata e cresciuta in un fabbricato sequestrato alla mafia,  da alcuni mesi produce e pubblica i video del canale  YouTube di Lucia Esposito, chiamato “C’è Luce in Cucina”.

Figlia di una coppia di non vedenti, Lucia ha perso la vista all’ età di vent’ anni, e ovviamente la cosa le ha causato traumi anche psicologici non indifferenti, ma dopo un periodo di profondissima tristezza è riuscita a riprendere in mano la sua vita.

Moglie e madre, alla ricerca di uno spazio tutto suo Lucia ha riscoperto una passione di sempre e ha acceso le luci dei riflettori sulla sua cucina.  Vederla muoversi con naturalezza fra ingredienti e fornelli, creare piatti della tradizione da condividere con tutti i suoi fan (perché Natale è anche condivisione) mostra in modo esplicito che davvero possiamo tutti uscire dal buio.

Con la forza dell’ impegno, la concretezza della volontà e anche con la leggerezza della luce. e delle luci: accendiamole anche quest’ anno, per illuminare il nostro bisogno di continuare a credere in un futuro fuori dal buio.

Grazie, Lucia Esposito, anche per la ricetta dei Mustaccioli 🙂

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Racconto di Natale: il Panettone rende liberi

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Occupandomi di food da qualche anno, vi dirò che sonno stanco di raccontare come sempre la storia di Toni, il  garzone di panettiere (prestinèe, visto che siamo a Milano) che per sbaglio fece cadere l’uvetta e i canditi nell’ impasto del pane creando un dolce che prese il suo nome, PAN DE TONI, appunto.

A parte il fatto che non si sa neppure se sia vera, l’avrete sentita mille volte. Questa invece, almeno per me che l’ho sentita da poco, è nuova. Ed è assolutamente veritiera.

Oggi vi voglio parlare di un panettone speciale, oltre che per la sua qualità ( l’ho assaggiato a ottobre, piuttosto in anticipo sulla stagione, fra gli stand di Milano Golosa: bella manifestazione, fra l’altro, aspetto la prossima con l’acquolina in bocca…) proprio per la storia che racconta.

Si tratta del panettone della Pasticceria Giotto, parte del progetto di integrazione sociale avviato  da tempo all’interno del carcere di Padova. Fra i vari progetti, quello che più riguarda chi si interessa di cibo è proprio il laboratorio di alta pasticceria in cui viene prodotto il panettone.

E anche qui, non starò a dirvi che è buono perché aiuta l’integrazione e altre chiacchiere  che a Natale rischiano di diventare stucchevoli: è buono perché è buono da mangiare, ha pure vinto il titolo di Migliore Pasticceria d’Italia assegnato da Il Gastronauta, per il resto è utile.

Perché operazioni del genere non vanno fatte per bontà, ma perché serve a tutta la società fare in modo di reintegrare fra i suoi ranghi persone che hanno commesso magari degli errori, ma che hanno dei talenti di coltivare.

Nel sito della pasticceria Giotto troviamo le parole  di uno dei lavoratori detenuti che sono davvero illuminanti:

“La mia è certamente una condizione migliore rispetto a quella di tanti altri detenuti; spero che anche altri possano avere questa possibilità. Sto imparando il mestiere di pasticcere. La possibilità di lavorare in carcere ha cambiato tante cose in me. Credo di essere maturato, di essere cresciuto. Imparando il mestiere spero di riuscire, una volta uscito, a fare una vita normale.”

Sul loro e commerce potete anche ordinare eventuali regali da fare agli amici o ai clienti, certi di fare una bella figura perché come vi dicevo i dolci che producono sono davvero squisiti. E fate un regalo anche al nostro Paese: quello della speranza di un cambiamento, che inizia proprio dq queste azioni concrete.

Appuntamento alla prossima settimana con un’altra storia di Natale dedicata al cibo.

Impara l’arte… di assaggiare. Lezioni d Olio.

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Una metà di Odio il brodo, quella più calva per essere precisi, ha passato due interessantissimi giorni alla scoperta dei segreti di una delle aziende italiane più famose: era l’evento #dedicatoame, organizzato per un gruppo selezionato di blogger da Fratelli Carli.

Fra visite agli stabilimenti e all’ uliveto, momenti di convivialità dove spiccava un picnic fra gli ulivi, visite all’emporio e quiz finale (che Odio il Brodo ha orgogliosamente vinto) la parte che più affascinante è stata la lezione privata di assaggio di Olio, insegnata in una interessantissima lezione privata di Gino de Andreis, responsabile qualità di Fratelli Carli.

Nell’ emporio di Imperia, divertente gioco di parole che non possiamo non apprezzare, dopo un excursus storico sulla produzione dell’ olio ci ha iniziato all’ arte di distinguere l’ olio di oliva nelle sue qualità intendendo con questo termine non il valore , ma la tipologia del gusto.
Fra i fattori che influenzano la qualità dell’ olio ci sono il clima, il terreno, il cultivar della pianta, l’agrotecnica, una buona gestione dell’ oliveto, la tipologia di conservazione e stoccaggio delle olive, la lavorazione in frantoio… Da qui nasce un interessante paradosso: in annate di grande quantità si trova  anche un’elevata qualità, perché il costo della lavorazione in oliveto resta pressoché simile sia per poche, sia per molte olive e quindi l’agricoltore, in brutte annate di scarsa produzione, preferisce dedicare le sue attenzioni ad altre tipologie di coltivazioni.
Iniziamo con una premessa fondamentale (ogni tanto un “back to basic” ci vuole):                           per legge “ Olio extra vergine di oliva” può essere definito solo quello ottenuto esclusivamente dalla spremitura del frutto col solo utilizzo di mezzi meccanici.

Per distinguere le qualità di un olio si effettuano analisi di tipo chimico (acidità, perossidi, indici spettrofotometrici, fitofarmaci…) e quella che ci interessa di più, l’analisi organolettica.
L’olio è il solo alimento sottoposto per legge prima della commercializzazione a un protocollo definito PANEL TEST, in cui persone adeguatamente selezionate per assaggiare in modo oggettivo le qualità organolettiche del prodotto.
Ci sono dagli 8 ai 12 assaggiatori non professionisti, ma formati per poter dare giudizi che, riportati su una scheda, daranno la valutazione finale dell’ olio che per essere commercializzato deve essere prima di tutto “senza difetti”.

La definizione standard di qualità utilizzata da Fratelli Carli è questa: “Un olio armonico di gusto e di profumo, dove non prevale né il piccante né l’amaro, che si distingue per la sua amabilità senza essere tuttavia mai privo di carattere.”

Caratteristiche che vengono dalla giusta quantità di pioggia nel momento della fioritura e dell’ impollinazione, della giusta quantità di acqua nel periodo della crescita, del clima caldo e secco che uccide i parassiti durante la maturazione, del fresco durante la raccolta per evitare fermentazione delle olive sul terreno.

L’assaggio si fa in bicchierini blu, perché il colore non è un parametro di qualità, e con molta calma, utilizzando  un tappo riscaldatore che mantiene la temperatura a 35°  in modo che al momento dell’apertura si inizi a sentire il profumo.
Più intensa è la sensazione vegetale, il “fruttato”, percettibile all’olfatto più alta è la qualità dell’olio: se l’odore è sgradevole, l’assaggio si ferma.
Il secondo step è prendere in bocca una quantità di olio pari a un cucchiaio e analizzarlo sulla lingua per sentire i gusti fondamentali: dolce, salato, acido, amaro, piccante.
Qui inizia la vera fase vera e propria dell’assaggio, ispirando aria dalla bocca per vaporizzare l’olio nel cavo orale e portare gli aromi nell’ organo vomero-nasale. E’ lì che sentiamo i sapori, e per questo quando siamo raffreddati non li sentiamo.
Poi si espelle l’olio (ci sono sotto il tavolone delle bacinelle high tech con tanto di bottone in cui sputare l’olio appena assaggiato: fate conto che in ogni cucchiaio di olio ci sono 90 calorie, e che quindi assaggiandone sei ne avremmo ingurgitate 540… con tutto quello che ci aspettava dopo per il picnic sarebbe stato davvero eccessivo…) e si rimane concentrati fino a quando l’olio arriva in gola per consentire la valutazione retro olfattiva.
Fruttato, amaro e piccante sono attributi positivi per l’olio, perché indicano la corretta presenza di polifenoli che hanno la capacità di preservare le cellule, anche quelle del nostro corpo.
Fra gli atributi negativi ci sono il riscaldo che deriva dalle olive ammassate in fermentazione anaerobica, la muffa, la morchia dervita dal contatto con fanghi di decantazione, l’avvinato che deriva dalla formazione di acido acetico, il metallico che deriva da utensili non in acciaio inossidabile e il rancido di un prodotto grasso ossidato.
Quest’ultimo lo abbiamo sentito marcato nel bicchierino marrone che confessiamo di aver solo annusato…

ED ECCO I BICCHIERINI MISTERIOSI:
A – olio taggiasco DOP della riviera ligure.
Fruttatio verde medio, amaro leggero, piccante leggero, dolce medio con leggere note di mandorla e carciofo.
B – Olio spagnolo di oliva arbequina
Fruttato maturo medio, amaro leggero, piccante leggero, dolce medio e leggere note di erba, pinolo e carciofo.
C – Olio greco di olive Athnolia
Fruttato verde medio, amaro leggero, dolce medio, con note di erba, pomodoro e carciofo.
D -Olio siciliano di oliva biancolilla
Fruttato verde medio, amaro leggero, piccante leggero, dolce medio con leggere note di pomodor, erba e carciofo
E – Olio pugliese di oliva coratina
Fruttato verde medio, amaro medio, piccante medio e note marcate di carciofo e di erba.

Il mio preferito è stato il D, e l’esperto di Fratelli Carli mi ha detto che era addirittura un olio di due anni: complimenti al “vecchietto”, che ha saputo conservare così bene il suo carattere.

Una dote che qui nell’ azienda Fratelli Carli è piuttosto diffusa: è bastato sentire in un documentario la voce del nonno Carlo, novantaseienne patron dell’ azienda, e vedere una sua foto per capire com’è che “l’ulivo continua a dare frutti per sempre” dopo i primi dieci/quindici anni , anche dopo gelate violente e forti difficoltà.

Un altro esempio di come l’ulivo sia una perfetta metafora dell’ uomo: e questo è un altro insegnamento che abbiamo ricevuto da questa esperienza, guardando  nello stesso pomeriggio, le foto di questa azienda distrutta dalle bombe nella seconda guerra mondiale e la ricrescita di un ulivo da una radice rinata dopo una potente gelata inattesa.

Forse è proprio con questa pianta che , personalmente, sento un affinità elettiva, per dirla con gli amici di Natural Recall: dà il mio meglio spremuto a dovere, sono piuttosto resistente e cerco sempre di rinascere. Anche se dubito che nessuna colomba mi porterebbe mai nel becco come simbolo di pace… Soprattutto dopo aver approfittato del ricchissimo cestino #dedicatoame del magico Enrico Calvi del ristorante Salvo I Cacciatori.

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Maiale sarà lei! Il lato suino del Rustin Negà.

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Il filetto di maiale è uno dei grandi classici della cucina di casa mia: l’ho fatto in crosta una settimana prima che lo proponesse Masterchef e l’altra sera, con grande sorpresa, l’ha preparato mia moglie.

Schermata-03-2456730-alle-12.18.41E l’ha fatto seguendo la mia ricetta del milanesissimo rustin negà (arrostino annegato, per i non milanesi), un piatto che da noi è anche un piatto vero e proprio, dal momento che l’abbiamo nella collezione dei “piatti del buon ricordo” di cui siamo andati per anni a caccia nei mercatini dell’ usato.

Praticamente il filetto di maiale è stato infarinato, poi fatto rosolare in padella con olio, burro e rosmarino dopodiché è stato, appunto, annegato ma non nel vino bianco come la ricetta originale: il sapore più vigoroso del maiale (e il fatto di averne una mezza bottiglia avanzata dalla sera prima) ci ha suggerito un vino rosso abbasanza corposo. Così nella successiva cottura lenta, circa un’oretta, oltre a glassarsi come nella ricetta originale ha preso un bel colore bruno all’ esterno.

Nel frattempo bollivano le patate, che poi sono state fatte saltare nel fondo di cottura dell’ arrosto (gras de rost, in milanese, significa anche persona pedante e difficile da digerire, e questo vorrà pur dire qualcosa…).
Così, messe in forma le patate, ci abbiamo adagiato sopra le fettine del nostro filetto e, in cima come la classica ciliegina sulla torta, una ciliegina di mostarda, che una volta consideravo cibo tipicamente da papà e che, in effetti, da quando papà lo sono diventato davvero, ha iniziato a piacermi.
Schermata 03-2456729 alle 21.06.03Ma di questo parleremo un’altra volta, dopo aver fatto piangere i bambini con una perfida vignetta su una delle loro beniamine che a me, invece, sta cordialmente antipatica a causa del suo muso che mi ricorda… No, non ve lo dico. ma pensateci la prossima volta che vi capita di andare in un bagno pubblico e vedere i disegni sulle pareti.



Il mio riso venere Totoro

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Odio il Brodo ama il carnevale, e lo festeggia vestendo come uno dei suoi cartoni animati preferiti (Il Mio Vicino Totoro) un piatto di riso venere… con sorpresa.

Fate bollire il riso venere, conditelo con un filo di olio d’oliva emulsionato con zenzero e sale e decoratelo utilizzando una foglia di insalata al posto del suo ombrellino vegetale, due fette di oliva  per le pupille e sottilette per fare occhi, bocca, e pancia.

E nella pancia, sotto la sottiletta, potete mettere quello che volete: io ci ho messo dei gamberetti saltati in agrodolce , e quando li ho mischiati al riso venere erano buonissimi.

Ah, e ovviamente, essendo carnevale, c’era anche del coriandolo (ah ah ah, che simpatico che sono).

La Tajine, le Droghe e Rachida.

foto (16)Va bene, lo ammetto. faccio uso di droghe. Ultimamente anche un uso smodato, specialmente da quando ho scoperto che fanno bene al morale, e anche alla salute. Sì perché è ormai da qualche anno che ho la mano leggera con il sale, e la pressione è effettivamente migliorata,  e pesante con tutte quelle spezie che  in tempi non sospetti venivano chiamate, appunto, droghe.

E’ per questo che ci sono ancora in giro negozi, i pochi rimasti ormai visto che tutti fan la spesa nei supermercati, che si chiamano drogherie, che cosa credete? Non è  che potete andare là e comprare erbe psicotrope o polverine come quelle cantate da Pollon Combinaguai...

La mia droga non si chiama Julie, dotta citazione cinefila per bilanciare il cartone animato di prima, ma si chiama, udite udite “SUK” oppure “LA SAPORITA”: le usava anche mia mamma, e adesso che le ho ritrovate non le mollo più.

Così, visto che le avevo nel mio cassetto  magico, mi sono lasciato ispirare dall’ ultima puntata di Mastechef e mi sono lanciato nella preparazione di una tajine che nemmeno Rachida.

Questa donna che si è trasformata in un meme vivente, provate a digitare Rachida e vedrete quante immagini del suo viso dall’ inesauribile “mimetica facciale” come diceva un mio amico accompagnate da frasi più saporite dei piatti marocchini.

La tajine che uso me l’ha regalata mia moglie un Natale di qualche anno fa, è elegante, blu intenso (non mia moglie, intendiamoci: la tajine) e quindi fa sempre bella mostra di sè in cucina anche quando non la uso.

L’altra sera, invece, ci ho messo un po’ di olio e di burro, poi ci ho fatto rosolare i bocconcini di petto di pollo che prima avevo messo in u nsacchetto  infarinato con un mix di farina e, appunto, la mia droga LA SAPORITA. Poi ho tolto i pezzetti di pollo, ho aggiunto gli spinaci, ho rimesso il pollo e lo coperto con un mix di verdure (confesso: le ho comprate surgelate e già tagliate per fare prima, e per spendere di meno… zucchine e cornetti non sono di stagione e in alcuni negozi te li montano direttamente su oro).

Una bella spruzzata di zenzero, e poi a cuocere a fuoco lentissimo con la tajine coperta per circa 40 minuti, girando ogni tanto perché, come direbbe la donna più odiata ( a mio parere a torto: lo sapete che adoro i cartoni animati…) di masterchef: “Guardami che si no bruciano le tajine!”

Quando tutto è pronto, un bell’ anello di cous cous e in mezzo, la nostra tajine con a parte, per i più temerari, una ciotolina con la harissa, la salsa piccantissima tipica della cucina del Marocco. E se fosse l’abuso di  Harissa a provocare le espressioni che rendono Rachida così simile a Wolfie, il cartone animato di Tex Avery? Intanto, guardiamoci questo capolavoro che non fa mai male e godiamoci la tajine col cous cous.


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