Non mimose, ma anelli di pasta ripieni.

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E così è passata un’alatra giornata della donna. Confesso che ho provato a resistere, ma alla fine qualcosa di giallo alle mie signore l’ho preparato: al centro di questo menu, che prevedeva come aperitivo le uova alle bella rosin che vedete qui sotto, c’erano gli anelli di pasta ripieni, per i quali mi sono ispirato a due chef conosciuti durante questi mesi di esperienza con i blogger di Cucinare Meglio, Tiziana Stefanelli incontrata grazie a Star e Ale Borghese visto all’evento Danone.

Ispirandosi ai loro piatti realizzati con la calamarata di Gragnano, che però non ho trovato, ho realizzato questo primo piatto in giallo, semplice semplice (insomma, non proprio ma non mi piace far pesare le cose).

Così ho preso un paio di filetti di platessa, con tutta la pelle per avere un po’ di collagene per tenere insieme quello che sarà il ripieno della nostra pasta, e li ho fatti bollire con una patata.

Una volta lessate, le ho scolate e poi frullate con un po’ di latte e una bustina di zafferano.

Mentre bolliva la pasta, ho fatto saltare in pentola una manciata di erbette con uno spicchio di aglio, cui poi ho aggiunto quattro cucchiai di yogurt bianco in cui ho fatto sciogliere due cucchiaini di una piccante miscela tandoori e ho frullato il tutto per metterlo a specchio sul fondo del piatto, dove poi ho messo la pasta riempita con il composto di patate e platessa.

Per amplificare l’ “effetto mimosa” ho grattugiato su tutto un po’ di tuorlo d’uovo molot, ma molto sodo (cottura almeno quindici minuti, come si fa con le tradizionali “uova alla bella Rosin” tipiche del Piemonte.

E buon appetito, anche dopo l’8 marzo

 

Mondo in Pentola, il gusto di stare insieme.

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Lo sapete da tempo: Odio il Brodo ama i falafel, del resto ne abbiamo fatto anche una inforicetta…

Alla festa di Natale di Monforte c’erano quelli preparati da Mondo in Pentola, progetto di catering multiculturale, nato da un corso di cucina, nato all’ interno di un progetto per il recupero delle periferie di Milano.

Detto così sembra complesso, ma è molto più semplice e coinvolgente nelle parole di una delle responsabili, Ersilia D’Antonio:

“Tutto è nato con Dencity, progetto per il recupero della periferia del Giambellino, in cui è stata inserita la possibilità di fare un corso di cucina multietnica gratuito che dava crediti formativi con certificazione htcp. Grazie a un accordo col comune abbiamo ottenuto la possibilità di utilizzare che ha dato una cucina professionale in via Fleming che, dopo un processo di autoselezione fra i vari candidati, ha ospitato undici donne provenienti da ogni parte del mondo: Albania, Romania, Costa Rica, Cuba, Eritrea, Senegal, Spagna, Italia, Giappone. “

Perché il cibo unisce, e aiuta a superare anche le barriere etniche e culturali: “Lavorando fianco a fianco le une con le altre” prosegue Ersilia D’Antonio “le nostre cuoche hanno imparato a vincere la diffidenza e il razzismo, perché esiste anche fra gli immigrati, che spesso nascono proprio dalla mancanza di scambio e di conoscenza dell’ altro. Ognuna ha trasmesso all’altra le specificità della sua cultura gastronomica, in un concetto di cucina lontano mille miglia dall’ idea generica di “fusion” ma vicinissima all’esperienza quotidiana di una cucina dove, più che le ricette e le alchimie , contano la familiarità e l’esperienza quotidiana all’ interno della cucina che l’incontro fra varie culture può portare fra i fornelli”.

Così, mentre alcuni imparavano a cuocere, appunto, i falafel, altre chiedevano una cosa che per noi è quasi scontata: come si fa a fare il, sugo.

Perché l’integrazione passa anche dalla gola, e progetti come questo valgono probabilmente quanto tutta Expo2015. Ora che Mondo in pentola si propone di diventare un servizio catering a tutti gli effetti, speriamo che qualche azienda che organizzerà eventi in occasione di questa manifestazione si ricordi di loro per il buffet. Magari guardando in queste foto quello che hanno preparato al mercato di Lorenteggio, in occasione della presentazione del gruppo.

Vaniglia con purea e chutney di albicocche.

Screenshot 2014-12-22 22.11.58Vi dovevo una ricetta dal mio menu di Natale (quella degli alberelli non ve la dò, troppo facile: fate dei cestini di pasta brisè, mettete nella siringa da pasticceria un impasto di ricotta-uova-erbette-parmigiano da torta salata, decorate con bacche rosa e il gioco è fatto) e siccome si avvicina l’ultimo giorno del 2014 (e meno male…) vi parlo del mitico vaniglia.
Insaccato tipicamente brianzolo, che fa il paio con la bógia di cui vi parlerò in altra occasione, il vaniglia da sempre sostituisce sulla mia tavola il più grasso zampone, l’abusato cotechino e la mia adorata mortadella di fegato, che però riconosco sia un po’ troppo saporita per adeguarsi a un menu che si vuole (chissà comne mai) raffinato come quello di capodano.
Come è ovvio immaginare, il vaniglia si chiama così perché l’ impasto (più magro di quello del cotechino tradizionale: ogni salumeria ne ha uno, io prediligo quello del salumificio Bonfanti) prevede anche una bacca della pianta aromatica solitamente utilizzata per i dolci.
Lo si bucherella con i rebbi di una forcehtta, poi lo si chiude ben bene in una pellicola di alluminio e lo si lascia bollire per un paio d’ore.
Il tempo di lessare le patate da cucinare poi in purea (devo ricordarmi di comprare lo schiacciapatate, l’ultimo l’ho rotto la sera di natale preparando i passatelli), su cui poi si sdraierà la fetta di vaniglia che quest’ anno ha un tocco etnico in più.
Assaggiatelo con il chutney di albicocche che trovate sul sito di Tipika Food: del resto fra due giorni inizia l’anno dell’ Expo, e se non siamo internazionali giù da subito poi tocca correre per adeguarci. Oltre che per smaltire pranzi e cenoni.

 

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Il menu di Natale, e di tante altre feste

Screenshot 2014-12-22 22.11.27A dire il vero è stato preparato per un’altra occasione (da queste parti c’è un sacco di gente che compie gli anni a una settimana dal Natale: auguri a Mauro, a Marilena e a mia sorella, uno in fila all’altro!) .
Così, ecco per voi l’elenco e le foto di un pranzo davvero speciale:
le ricette dei piatti che compongono questo menu seguiranno nei prossimi giorni. Intanto, lo aggiungiamo ai Meniu di Natale dei blogger di Cucinare Meglio. Con i nostri migliori auguri

ANTIPASTI
-Cestini di pasta brisèe con alberelli di ricotta e spinaci (le palline sono bacche rosa)
-Alberelli di pane da tramezzini con patè di tonno e lenticchie
-Cestini di bacon con insalatina di mele, mandarino e salmone

PRIMO
-Risotto ai gunfhi e formaggio Branzi con cialda di grana.
(trovate la ricetta in un post precedente)

SECONDO
-Purea con vaniglia (insaccato tipico brianzolo) con chutney di albicocche di Tipika Food

DESSERT
-Quadratini di torta paesana delle feste (senza uvette e p9noli ma con limone e cannella), panna vegatale e bacche di goji.

 

P.S. per completare il menu, una ghiotta scoperta che abbiamo fatto in questi giorni: Nils Landgren .  Consigliandovi i suopi straordinari album CHRISTMAS WITH MY FRIENDS vi ripetiamo i nostri auguri di buone feste.

 

Ruben, un ristorante per gente speciale.

Screenshot 2014-12-17 23.15.56C’è un ristorante a Milano dove ogni sera cenano oltre 200 persone: famiglie con bambini,  uomini divorziati, coppie che lavorano,  cinquantenni italiani in libera uscita dal lavoro…

Detto così sembra uno  dei tanti ritrovi presentati nelle rubriche dedicate alla vita mondana in città, ma Ruben è tutta un’ altra cosa. Ruben dà da mangiare a tutte quelle persone che rappresentano il volto nuovo della povertà, e che magari fino a poco tempo fa erano soliti frequentare proprio quei locali che fanno pulsare il cuore di quella che un tempo veniva definita “la Milano da bere”.

Ora il cuore pulsa per altri motivi: la paura di non aver niente da dare da mangiare ai propri figli, l’ angoscia di trovarsi in una situazione che non si sa controllare,  il panico scatenato da  una condizione economica che non rientrava nelle prospettiva del proprio futuro e che si fa fatica ad accettare.

Perché Ruben,il ristorante creato dalla fondazione Ernesto Pellegrini,  con le sue cene a un euro si rivolge a tutta quella nuova fascia di povertà creta dalla lunga crisi in cui tutti stiamo passando: scordiamoci gli homeless poetici ed eroici della Londra di Dickens o della Milano  dei Tecoppa, i tossicodipendenti degli anni settanta e ottanta, gli immigrati sui barconi.

Sui tavoli di Ruben la povertà ha il volto stanco e sconfitto del vicino di casa che ha perso il lavoro e che i giornali etichettano come esodato, come se questa parola dal suono bizzaro da entomologo facesse scomparire la concreta difficoltà di mettere insieme il pranzo con la cena.

E il disagio ha il volto del padre divorziato che, quando gli va bene,  magari è tornato a dormire dai genitori nella cameretta di quando era ragazzo, e che quando ha uno stipendio lo deve utilizzare per pagare gli alimenti ai figli.

Come ci ha detto il responsabile della fondazione Ernesto Pellegrini, Davide Lo Castro: “sono persone che non hanno dimestichezza con le associazioni, che hanno vergogna a chiedere aiuto e comunque non sanno come farlo. Per questo abbiamo creato una rete che comprende le tradizionali associazioni cattoliche, le nuove figure del volontariato e dell’ assistenza e ora anche i servizi sociali della città. Più allarghiamo la rete, più persone possiamo sperare di intercettare e aiutare”.

Persone che non sempre hanno la forza di ammettere il loro effettivo bisogno di essere aiutati, proprio come quel Ruben che ha dato il nome al ristorante, la cui vita è narratra in poche ma sentite righe scritte proprio da Ernesto Pellegrini:” Ruben aveva lavorato per tre generazioni nella mia famiglia, poi in un momento difficile si è ritrovato senza casa, senza lavoro e io, che non ho avuto modo di aiutarlo, ho sempre ricordato il suo ricordo nel mio cuore. Un uomo buono, un gran lavoratore  che non è riuscito ad affrontare un cambiamento fore duro. Oggi è nel suo ricordo che attraverso il ristorante voglio aiutare chi si trova in un momento di difficoltà e di disagio, e che nel nome di Ruben trova non solo cibo, ma anche aiuto, ascolto e una motivazione a riprendere in mano la propria esistenza, sapendo di poter contare su qualcuno. E’ il mio modo di restitutire un poco di quello che la vita mi ha dato”.

Per saperne di più su Ruben, sul ristorante e sulla fondazione Pellegrini, seguite questo link.

E settimana prossima vi racconteremo un’altra storia di Natale, perché noi di Odio il Brodo siamo sempre più convinti che parlare di cibo non sgnifichi soltanto descivere ricette e a fotografare piatti, ma raccontare le storie che si nascondono dietro un piatto, un ristorante o, come faremo nel prossimo post, un corso di cucina davvero particolare. Perché settimana prossima è Natale a Milano come in tutto il mondo…

 

 

 

#unstartuttanuova e una star tutta nostra.

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La sede nuova della Star in via Imbonati  a Milano l’avevamo già vista quando la scorsa estate siamo andati a parlare del’ iniziativa Meglio Star, ma questa sera l’abbiamo vista davvero bene e abbiamo apprezzato un sacco di dettagli che ci erano sfuggiti.

Dalla sala arredata con una scultura sospesa di mestoli di legno fino alle pareti che ospitano la classica “signora dei dadi” rivisitata con lo stile di famosi artisti contemporanei e ristoro che diventa una vera e propria sala riunioni informale dove incontrarsi per discutere di nuovi progetti.

Perché in questa nuova sede nessuno ha una scrivania fissa: ci si mette dove si vuole quando si arriva e questo facilita lo scambio delle idee e aiuta ad evitare le fossilizzazioni. Caratteristiche importantissime per un’azienda che vuole fare dell’ innovazione di prodotto la sua arma vincente.

Nel corso della serata, infatti, ci hanno presentato i nuovi prodotti in uscita da gennaio: un nuovo gusto dei nudolini Saikebon (ai gamberetti, per la precisione) che hanno conquistato il mercato con una prodotto prima praticamente assente dagli scaffali, una interessante variante di prodotto sempre della linea Saikebon da gustare asciutta e il ragù ai pomodori datterini.

Tutti prodotti che sono poi stati testati nella spettacolare cucina che domina il piano ammezzato del palazzo e docve per una sera ha regnato sovrana Tiziana Stefanelli. La vincitrice della seconda edizione di Masterchef Italia ha immediatamente voluto a farle da brigata i “nostri” A Tavola con Willi , Mapy le sue ricette, in Cucina con Enza e la new entry i sapori della mia cucina.

I tre si sono abilmente destreggiati fra le preparazioni originali e rapide create da Tiziana e dai “resident chef” di Star: finti sushi e involtini primavera di Saikebon, pomodori ripieni e arancini di pan carrè al ragù di datterini.

Le ricette le lascio raccontare agli altri ospiti,  i ringraziamenti a Star (anzi, a #unastartuttanuova) li faccio subito. Quanto a Tiziana Stefanelli ci auguriamo di ritrovarla presto: ormai la consideriamo #unastartuttanostra 😉

 

Risotto con funghi, Branzi e cialda di parmigiano.

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Conoscete Tipika Food? beh, conoscetelo 🙂

SI tratta di un sito di e-commerce che cerca in tutta Italia i migliori prodotti gastronomici artigianali: dal miele alle marmellata, dal riso al farro, dalle conserve ai prodotti da forno…

E’ una start-up, ma una start-up vera nel senso che è online da poco più di un mese e ha appena iniziato una collaborazione con i blogger di Cucinare Meglio. A dicembre sono partite le prime confezioni di prodotti scelti dal loro catalogo, da testare nelle nostre ricette in cui, volendo, possiamo suggerire anche prodotti del nostro territorio che gli amici di Tipika testeranno a loro volta per valutare l’opportunità  di inserirli nel loro e-shop.

Così è nato questo risotto ai funghi porcini che utilizza il carnaroli dell’ azienda agricola Zacchetti-Crepaldi di Cascina Malpaga a Rosate ricevuto insieme al farro e a un chutney di albicocche che  saranno oggetto della prossima ricetta, i funghi porcini secchi del mio “fungiatt” di fiducia e il formaggio Branzi, che suggerisco a Gianfranco, la mascotte di TIpika Food.

Preparato il brodo (perché quando ci vuole ci vuole, nonostante il nome del blog: manzo, sedano, carota e cipolla) ho fatto soffriggere lo scalogno e poi tostare il riso sfumandolo, udite udite, con il Marsala dei Fratelli Carli che ormai sta diventando un must nella mia cucina :prossimamente vi racconterò le mie scaloppine fatte con questa delizia.

il riso cuoceva, e io tagliavo a dadini il Branzi, poi a metà cottura aggiungevo i funghi ammollati e lo zafferano e, alla fine, il Branzi e un pezzetto di burro per mantecare.

Nei canonici  cinque minuti in cui il rio riposava, ho preparato le cialde di parmigiano (lo sapete come si fa, vero: mucchietti  di parmigiano sulla teglia con carta da forno, grill caldo, teglia in forno fino a quando il formaggio si scioglie in una foglia sottile e dorata.

Mentre la cialda è ancora morbida, la poggiavo sopra il riso impiattato con un coppapasta quadrato e… buon appetito.

 

In cucina c’è luce. E anche i mustaccioli…

Screenshot 2014-12-10 10.43.13E’ da oltre trent’anni che pendolo in treno fra il mio paesello e Milano, e ieri sera ho notato una cosa insolita.  Ogni anno, dopo sant’Ambrogio,  le case via via sempre più numerose che si affacciano sui binari iniziavano una dopo l’altera a punteggiarsi delle luci colorate degli alberi di Natale.

Ieri sera no, ieri sera se ne contravano soltanto uno, o due: spero in un ritardo, ma ho la nettissima impressione che quest’anno di luci ne saranno accese ben poche. Siamo tutti incupiti, intristiti, arrabbiati, preda della paura di perdere quel poco che abbiamo che nemmeno ci accorgiamo del valore simbolico di quelle luci accese sui nostri balconi o alle nostre finestre.

Ancora prima che l’Europa diventasse cristiana, a Roma durante il solstizio d’inverno si festeggiava la festa del “Sol Invictus”, del sole che tornava a riprendere pèossesso del cielo dopo la notte più lunga dell’ anno.  Non dovremmo scordarcelo mai:  le luci di Natale sono il simbolo della rinascita dopo il buio, e così anche le candeline che nei paesi nordici incoronano la testa delle ragazzine vestita da Santa Lucia.

E qui arriviamo alla storia di Natale di oggi, quella di una Lucia che abbiamo conosciuto grazie ad alcuni post di Radio Siani: questa “radio della legalità”, nata e cresciuta in un fabbricato sequestrato alla mafia,  da alcuni mesi produce e pubblica i video del canale  YouTube di Lucia Esposito, chiamato “C’è Luce in Cucina”.

Figlia di una coppia di non vedenti, Lucia ha perso la vista all’ età di vent’ anni, e ovviamente la cosa le ha causato traumi anche psicologici non indifferenti, ma dopo un periodo di profondissima tristezza è riuscita a riprendere in mano la sua vita.

Moglie e madre, alla ricerca di uno spazio tutto suo Lucia ha riscoperto una passione di sempre e ha acceso le luci dei riflettori sulla sua cucina.  Vederla muoversi con naturalezza fra ingredienti e fornelli, creare piatti della tradizione da condividere con tutti i suoi fan (perché Natale è anche condivisione) mostra in modo esplicito che davvero possiamo tutti uscire dal buio.

Con la forza dell’ impegno, la concretezza della volontà e anche con la leggerezza della luce. e delle luci: accendiamole anche quest’ anno, per illuminare il nostro bisogno di continuare a credere in un futuro fuori dal buio.

Grazie, Lucia Esposito, anche per la ricetta dei Mustaccioli 🙂

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Racconto di Natale: il Panettone rende liberi

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Occupandomi di food da qualche anno, vi dirò che sonno stanco di raccontare come sempre la storia di Toni, il  garzone di panettiere (prestinèe, visto che siamo a Milano) che per sbaglio fece cadere l’uvetta e i canditi nell’ impasto del pane creando un dolce che prese il suo nome, PAN DE TONI, appunto.

A parte il fatto che non si sa neppure se sia vera, l’avrete sentita mille volte. Questa invece, almeno per me che l’ho sentita da poco, è nuova. Ed è assolutamente veritiera.

Oggi vi voglio parlare di un panettone speciale, oltre che per la sua qualità ( l’ho assaggiato a ottobre, piuttosto in anticipo sulla stagione, fra gli stand di Milano Golosa: bella manifestazione, fra l’altro, aspetto la prossima con l’acquolina in bocca…) proprio per la storia che racconta.

Si tratta del panettone della Pasticceria Giotto, parte del progetto di integrazione sociale avviato  da tempo all’interno del carcere di Padova. Fra i vari progetti, quello che più riguarda chi si interessa di cibo è proprio il laboratorio di alta pasticceria in cui viene prodotto il panettone.

E anche qui, non starò a dirvi che è buono perché aiuta l’integrazione e altre chiacchiere  che a Natale rischiano di diventare stucchevoli: è buono perché è buono da mangiare, ha pure vinto il titolo di Migliore Pasticceria d’Italia assegnato da Il Gastronauta, per il resto è utile.

Perché operazioni del genere non vanno fatte per bontà, ma perché serve a tutta la società fare in modo di reintegrare fra i suoi ranghi persone che hanno commesso magari degli errori, ma che hanno dei talenti di coltivare.

Nel sito della pasticceria Giotto troviamo le parole  di uno dei lavoratori detenuti che sono davvero illuminanti:

“La mia è certamente una condizione migliore rispetto a quella di tanti altri detenuti; spero che anche altri possano avere questa possibilità. Sto imparando il mestiere di pasticcere. La possibilità di lavorare in carcere ha cambiato tante cose in me. Credo di essere maturato, di essere cresciuto. Imparando il mestiere spero di riuscire, una volta uscito, a fare una vita normale.”

Sul loro e commerce potete anche ordinare eventuali regali da fare agli amici o ai clienti, certi di fare una bella figura perché come vi dicevo i dolci che producono sono davvero squisiti. E fate un regalo anche al nostro Paese: quello della speranza di un cambiamento, che inizia proprio dq queste azioni concrete.

Appuntamento alla prossima settimana con un’altra storia di Natale dedicata al cibo.

Il mondo in un piatto di lenticchie

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Dice la Bibbia che Esaù vendette la primogenitura  per un piatto di lenticchie, e ogni volta che da piccolo sentivo questa storia pensavo che probabilmente doveva essere esaù…rito.

Ma al di là del gusto che mi danno da sempre i giochi di parole, anch’ io apprezzo, e molto, il sapore di questi legumi che una stupida tradizione vuole relegate soltanto a capodanno perché dovrebbero portare soldi. A parte il fatto che con tutte le lenticchie che ho mangiato a quest’ ora avrei dovuto essere in grado di lanciare un’ opa in solitaria su Microsoft e Facebook insieme, acquistando twitter con il resto…

Quando me ne sono reso conto, ho iniziato a mangiarle quando meglio mi pareva e ad arrangiarle in più modi. Questo è l’ultimo: trito di scalogno visto che Carlo Cracco definisce figo chi lo usa, ma a dirla tutta ora fa lo stesso anche con le aptatine rustiche, olio e un bel pacchetto di lenticchie di quelle che non necessitano l’ammollatura perché non avevo tempo.

Poi, qualche mestolata di acqua calda e un dado star vegetale, per insaporire il tutto un profumatissimo mix di spezie che solitamente uso per il pollo tandoori indiano, una spolveratina di zenzero fresco grattugiato che uso per i piatti cinesi, un trito di rosmarino di Montevecchia (che mi era avanzato dalle lasagne così ho provato) e vqueste lenticchie da giro del mondo le ho lasciate a cuocere fino a quando si sono ammorbidite.

Una volta in tavola, un giro d’olio e un rametto di rosmarino per guarnire, e avrei venduto la primogenitura anch’io… O almeno noleggiata.