Vi dovevo una ricetta dal mio menu di Natale (quella degli alberelli non ve la dò, troppo facile: fate dei cestini di pasta brisè, mettete nella siringa da pasticceria un impasto di ricotta-uova-erbette-parmigiano da torta salata, decorate con bacche rosa e il gioco è fatto) e siccome si avvicina l’ultimo giorno del 2014 (e meno male…) vi parlo del mitico vaniglia.
Insaccato tipicamente brianzolo, che fa il paio con la bógia di cui vi parlerò in altra occasione, il vaniglia da sempre sostituisce sulla mia tavola il più grasso zampone, l’abusato cotechino e la mia adorata mortadella di fegato, che però riconosco sia un po’ troppo saporita per adeguarsi a un menu che si vuole (chissà comne mai) raffinato come quello di capodano.
Come è ovvio immaginare, il vaniglia si chiama così perché l’ impasto (più magro di quello del cotechino tradizionale: ogni salumeria ne ha uno, io prediligo quello del salumificio Bonfanti) prevede anche una bacca della pianta aromatica solitamente utilizzata per i dolci.
Lo si bucherella con i rebbi di una forcehtta, poi lo si chiude ben bene in una pellicola di alluminio e lo si lascia bollire per un paio d’ore.
Il tempo di lessare le patate da cucinare poi in purea (devo ricordarmi di comprare lo schiacciapatate, l’ultimo l’ho rotto la sera di natale preparando i passatelli), su cui poi si sdraierà la fetta di vaniglia che quest’ anno ha un tocco etnico in più.
Assaggiatelo con il chutney di albicocche che trovate sul sito di Tipika Food: del resto fra due giorni inizia l’anno dell’ Expo, e se non siamo internazionali giù da subito poi tocca correre per adeguarci. Oltre che per smaltire pranzi e cenoni.