Ci sono piatti che non si improvvisano all’ultimo minuto, che necessitano di una preparazione lunga e di una cottura lenta e importante. Non li si possono certo preparare tutti i giorni, ma quando ti chiedono di essere preparati (perché a volte sono davvero loro che te lo chiedono) devi dedicarci tutto il tempo che occorre, e prenderti la preparazione come un momento per riflettere su cose importanti che invece, di solito, occupano il tuo cervello meno delle partite di Candy Crush. E’ il caso del brasato, che ho preparato oggi come mio modo personale di celebrare il giorno della memoria. Non che sia un piatto kosher, il mio macellaio di fiducia non lo è, ma sicuramente aiuta la riflessione e il ricordo sia durante la preparazione, sia dopo averlo consumato restando pigramente seduti sul divano. Come sempre, non sarà una ricetta precisa quella che vi darò, ma una suggestione con alcune riflessioni, a volte puramente personali, altre un po’ più generali.
FASE 1 – La marinatura e il dottor Dulcamara
La carne va scelta con cura, preferibilmente chiedendo il “cappello del prete” con la sua caratteristica venatura di grasso che lo taglia a metà. Perché il grasso, sciogliendosi parzialmente durante la cottura, va a infiltrarsi fra le fibre della carne contribuendo a renderla più tenere a saporita. Si lardella il pezzo di manzo inserendogli delle sottili scaglie di aglio e poi lo si lascia a macerare tutta la notte con una bella bottiglia di vino rosso (questa volta abbiamo scelto il pinot nero) carote, sedano, cipolla, porro, pepe… e un mix di spezie che non vi dico perché non si può mica sapere tutto. Mentre i sapori si mischiano potete fare quello che volete. Io ho ascoltato l’Elisir d’Amore di Donizetti, in diretta dal Met di New York, commentandolo online su un gruppo di discussione di amici melomani. E qui è partita la prima riflessione sulla memoria: tutta la storia dell’opera ruota intorno a un miracoloso elisir che altro non è se non un vino rosso come quello che ho usato per il brasato. Solo che un imbonitore, il dottor Dulcamara, lo spaccia per un rimedio universale contro ogni tipo di male fisico e morale (fra l’altro, in questa versione lo fa mostrando una parente delle nostre infografiche).
Ecco, forse dovremmo stare più attenti a tutti questi imbonitori che cercano di rifilarci pozioni farlocche per risolvere problemi che invece, anche nell’opera, si risolvono semplicemente guardandosi meglio dentro. Io personalmente ogni volta che qualcuno mi promette i suoi miracoli, penso a Dulcamara e mi viene da ridere. E non prenderli troppo sul serio impedisce a questi personaggi di portare avanti i loro piani.
FASE 2 – La cottura e la palla di pongo
Quando hai lasciato a marinare il brasato per tutta la notte, la cucina al risveglio sa di spezie e vin brulè, ma in modo molto più discreto del profumo che si sente nelle baite di montagna o fra le bancarelle dei mercatini di Natale. Allora prendi le verdure, le fai scottare con l’olio nella pentola di ghisa e fai rosolare la carne poi aggiungi il vino e metti sul fornello piccolo per almeno tre ore. Devi solo girarlo di tanto in tanto, anche solo per sentire il profumo che sale aprendo il coperchio, e hai tutto il tempo per fare un’altra riflessione mentre gli altri in casa ancora dormono. E la riflessione nasce da un ricordo dell’ infanzia, che mi è tornato alla mente ascoltando una delle mie trasmissioni preferite, Melog di GIanluca Nicoletti , che in una puntata di fine anno parlava di razzismo facendo un esempio che è stato fra le mani di tutti noi da bambini. Quando ci regalavano il pongo era tutto diviso in colori precisi e ordinati, poi con l’uso si formavano palle multicolori, di volta in volta sempre più sfumati l’uno nell’ altro fino a diventare un generico, indistinto marroncino. Certo, sarebbe stato interessante mantenere intatta la purezza dei colori originali, ma avremmo dovuto non giocarci per creare qualcosa di nuovo. E probabilmente anche nella società è così: se non mischiamo i colori non creiamo niente di nuovo, e alla fine i colori si seccano, invecchiano e diventano non più utilizzabili. Sicuramente succede così nel brasato: passate le tre ore, anche quattro, è il momento di frullare le verdure che, appunto, diventeranno un mix profumato, indistinto e golosissimo di colori e di sapori.
FASE 3 – La polenta e il sole
Se pensate che stia a spiegarvi come si fa la polenta, scordatevelo: ci sono istruzioni chiarissime su tutte le confezioni della farina gialla. Una sola raccomandazione, quella di non utilizzare le polente veloci altrimenti addio agli ultimi 40 minuti di meditazione. Che ispirandosi al colore della polenta è rivolta al sole, simbolo comune a tutte le civiltà anche sotto forma di svastica, che qualcuno ha modificato per farne il simbolo del suo orgoglio e della sua sete di potere. Ma i simboli sono più potenti di ogni formula politica, e il sole tramonta su ogni tipo di impero: il problema è quello che succede fra l’alba e il tramonto. E’ lì che dobbiamo vigilare, per fare in modo che nessuno si monti la testa… e che non si formino grumi nella polenta. Che adesso è pronta, e allora stop alle meditazioni e via, una fetta dopo l’altra.