Archivi categoria: INFORICETTE

Apritele davanti ai fornelli o sul piano di lavoro: tutto quello che vi serve in un colpo d’occhio.
Perché quando si sta cucinando a leggere troppo si brucia il soffritto…

Tortilla, guerrilla, espadrilla: omaggio alla Spagna che non c’è più…

Screenshot 2014-06-23 09.19.31

 

Todo cambia, cantava Mercedes Sosa anche nel film di NannI Moretti “Habemus Papam”, e proprio nell’ anno in cui tutto il mondo sembra innamorato di papa Francesco, l’uomo venuto dalla fine del mondo ( espressione che un pochino di ansia me l’aveva data, per essere sinceri) i Mondiali sembrano essere i mondiali degli outsider.

Non parliamo del Costa Rica, che è meglio, ma dell’ ormai irrimediabile uscita della Spagna dal torneo mondiale, e lo facciamo ricordando alcune cose che questo Paese ha regalato  alla storia personale di tanti di noi.

Le espadrillas, per cominciare, che nei primi anni ottanta erano  diventati un vero e proprio oggetto di culto se ci penso sento ancora la corda che mi segna la pianta dei piedi, sensazione che mi ha sempre fatto collegare l’invenzione di queste scarpe alle torture dell’ inquisizione spagnola. Però erano davvero “alternative” e pure “fashion”: Don Johnson le indossava nei telefilm di Miami Vice, e comprarle per due lire ci faceva sentire fighi. Negli ultimi anni si è tentato di rilanciarle, vestendole di toni fashion e aumentando il prezzo a dismisura, ma questi revival lasciano sempre un po’ il tempo che trovano.

Beh, forse allora è meglio pensare alla guerrilla, quella forma di lotta per bande che il tempo ha trasformato da strategia di combattimento un po’ ninja in uno strumento di marketing che invade le città con eventi come i flash mob o le invasioni di giovani vestiti con i colori del prodotto che cercano di offrire ai passanti. Insomma, anche la guerrilla non è più quella di una volta. O inn un modo inconsueto per colorare la città con aiuole che spuntano nel corso di una notte.

Quella che è rimasta identica è la  tortilla, questa golosissima specie di frittata che si fa tagliando a fettine un paio di patate ( anche una piccola cipolla, se amate osare) e di farle cuocere, non friggere, in poco olio di oliva. Una volta cotte, asciugatele dall’olio in eccesso e poi mettetele insieme a cinque/sei uova in un tegame, come per fare una frittata.

Quando è cotta, tagliatela a metà e riempitela di prosciutto (io preferisco quello cotto), poi domani sera divoratela nervosamente di fronte alla televisione facendo tutti gli scongiuri del caso e sperando che quel diavolo di Mick Jagger abbia ragione anche stavolta… 😉

Screenshot 2014-06-23 09.29.24

Screenshot 2014-06-23 09.24.17

Screenshot 2014-06-23 09.25.30

Screenshot 2014-06-23 09.33.38

 

Felafel o Falafel? Nel dubbio, mangiamoli. Anche di Venerdì.

Falafel

(arabo: فلافل‎, falāfil; in ebraico: פלאפל, traslitt. falāfel)
Come tutti i nomi traslitterati da lingue che hanno una scrittura diversa dalla nostra, anche quello dei Falafel lascia spazio alle interpretazioni: c’è chi lo scrive con la A, e chi lo scrive con la E.
Ma anche sulla ricetta ci sono numerose variazioni: c’è chi usa i ceci, chi usa le fave e, se vogliamo essere precisi, il nome deriva dall’ antica lingua copta e significa, più o meno, “con tanti fagioli”. Quindi mi sa che sarebbe ammessa anche la variante (l’abbiamo provata e vale la pena…) con i lupini.
In ogni caso, la ricetta di cui abbiamo fatto l’infografica ( la prima di questo 2014, a pensarci bene) è quella tradizionale con i ceci. Questo classico dello street food mediorientale, che a New York ha addirittura un re, sostituiva la carne nei giorni del digiuno.
E’ perfetto, quindi, anche per questo secondo venerdì di quaresima, per chi rispetta le tradizioni. Tradizioni che, fra l’altro, sono comuni a così tante religioni differenti fra loro da far pensare che ci siano dietro precetti salutistici validi anche per chi non crede. Un giorno mi sa che parleremo anche di questo, nelle nostre digressioni culinarie.
In ogni caso, di fronte a un piatto di Falafel preparati come si deve, cioè come trovate nella nostra inforicetta o in questo video  della ricetta tratta dal libro Taccuino Bizantino. E dove non mettono sui falafel la granella di semi (ahi ahi ahi) ma per nostra somma invidia possiedono l’attrezzo per fare i falafel tutti uguali: lo abbiamo cercato a lungo, ma non si trova. Se qualcuno sapesse indicarci dove comprarlo a Milano ci farebbe un grosso regalo.
Allora, se il tempo regge, prendete il vostro cartoccio di Falafel e… buon appetito!!! Se non regge, son buoni anche in casa.

Polenta concia… per le feste.

Quando le nostre radici arrivano dritte dritte dal Nuovo Mondo.

Tutto è nato dalla collaborazione con Mauri, e dai formaggi che ci ha spedito, ma l’idea di dedicare una delle nostre infografiche alla polenta ci girava per la testa già da un po’.
Più nell’anima brianzola di Odio il Brodo, a dire la verità, che la parte toscana non è molto avvezza all’oro giallo.

Che dalle mie parti, invece, veniva servita “cunscia” cioè acconciata o condita come nella ricetta che riportiamo oggi, in molte occasioni speciali. Negli altri giorni, per molto tempo, la polenta ha costituito  invece il pane quotidiano per intere generazioni di contadini che, apprezzandone la grandezza e la possibilità di uso quotidiano, lo chiamavano “Furmenton”, cioè frumentone.

E con questo frumento gigante si apre un discorso che noi di Odio il Brodo facciamo spesso tra noi , e che oggi vogliamo dividere con i nostri lettori: il discorso sulle culture autoctone. Se i contadini del dopo Cristoforo Colombo si fossero rifiutati di coltivare fagioli, mais e patate, probabilmente l’Europa sarebbe stata sterminata dalla fame in più occasioni. Ma nemmeno l’Asia sarebbe stata meglio: pare infatti che il boom demografico cinese fra il cinquecento e il seicento sia stato causato dalla coltivazione di questa pianta, che ha reso produttive le aree del delta dello Yang Tse. Facile da coltivare e altamente produttivo (13 quintali per ettaro invece dei 4 del frumento, sempre riferendosi alla produzione dell’epoca) il mais fu subito adottato anche dall’Africa.

Tornando alla nostra ricetta, pare che sia scivolata nel cuore della brianza dalle montagne Valtellinesi e da quelle confinanti della valle Brembana, dove la farina di mais veniva mischiata a quella di grano saraceno nella famosissima polenta taragna, condita con i formaggi tipici della zona (Branzi, Formai de Mut e Taleggio,,, anzi, Bontàleggio per far felice lo sponsor… ;-).

In questa variante ci abbiamo inserito anche il gorgonzola, un po’ perché ci piace, un po’ perché scendendo dalle valli verso la pianura padana, la polenta ha pian piano inglobato anche quello.

Come nei cuori che abbiamo fotografato per la ricetta “Due cuori e un gorgonzola”.

Castagnaccio e altre polverine.

Come l’ingrediente di un dolce può scatenare le prime, oratoriane voglie di trasgressione.

castagnaccio

Come l’ingrediente principale di un dolce della tradizione poteva scatenare i primi tentativi di trasgressione oratoriali.

La prima cosa che mi viene in mente pensando al castagnaccio non è tanto il dolce di cui vi diamo l’inforicetta, ma un ricordo legato alle “domeniche da solo in un cortile a passeggiar”.

Certo, non era estate e il pomeriggio più che azzurro era grigio, essendo autunno, ma l’ambiente era proprio quello dell’ oratorio.

Fra mastodontiche doppie brioche a forma di pesca e cannoncini ripieni di crema di dubbia freschezza, ma degni di figurare per enormità sugli spalti delle navi della envencible armada, nel bar gestito da nerborute volontarie si vendeva anche una magica polverina che noi chiamavamo “castagnaccio”.

Era, a dire la verità, una semplice farina di castagne, da succhiare con un bastoncino fino a quando la polvere riusciva a foderare completamente il palato provocando una seta estinguibile soltanto da potenti sorsate di gassosa filtrata attraverso una stringa di liquirizia (la gassosa, e lo dico soltanto per i più giovani, era una sprite prodotto in quantità industriali dai venditori locali di bibite e in qualche modo simile alla Sprite: i sibariti undicenni come noi, d’estate la insaporivano facendoci sciogliere dentro il ghiacciolo al limone…)

I più intraprendenti del mio gruppo, di cui a essere sincero non facevo parte, si bullavano di riuscire a risucchiare questa farina di castagne direttamente dal naso, mandando in visibilio le ragazze, ignare dei pomeriggi in cui i loro impavidi cavalieri avevano rischiato il soffocamento per allenarsi in questa esibizione.

Pessim abitudine, che avrebbe portato alcuni di loro a scivolare, lentamente ma inesorabilmente, verso ben altre polverine. Magari gradualmente, come era successo a “nasello” (così era stato chiamato”, passato con una progressione geometrica dal castagnaccio alla polvere per rendere frizzante l’acqua del rubinetto (esisteva anche quella, ikei lettori più giovani,m e si chiamava Idrolitina) ottenendone un effetto euforizzante delle narici, fino ad arrivare alla perversione estrema di rollarsi una sigaretta mettendoci lo zafferano. “Mi sembrava di avere sullo stomaco due chili di risotto” : la frase con cui chiosà questa esperienza mistica restò a lungo nella hit delle cose più stupide mai sentite nel nostro gruppo di amici.

MORALE: usate la farina di castagne per seguire la nostra inforicette, e se proprio volete provare l’ebbrezza della trasgressione, di fette di castagnaccio mangiatene due, alla faccia di tutti i consigli sull’alimentazione sana e corretta.

QUANDO IL FIASCO CAPITA A FAGIOLO

La ricetta toscana dei fagioli al fiasco ci ricorda che anche in cucina le cose migliori,
dalle patatine alle crêpes suzette, a volte arrivano proprio dagli sbagli.

Fagioli al fiasco

Non che la ricetta dei fagioli al fiasco sia un errore, intendiamoci.
Già a partire dagli ingredienti si capisce lo spirito di questo classico: poche cose, tutte di alta qualità lasciate insieme a cuocersi piano piano in modo che distillino la loro anima come nell’alambicco di un alchimista. Come succedeva quando le massaie buttavano il fiasco nella cenere del camino, dimenticandosene per stare appresso a mille altre faccende.
E mentre il fiasco (forse l’ingrediente più difficile da recuperare ad essere sinceri: se ne avete qualcuno tenetelo da parte) si fa i fatti suoi sul fuoco basso basso, noi abbiamo pensato a tutte le volte che da un metaforico fiasco sono nate delle cose meravigliose.

Anche solo per restare in cucina, prendete le patatine fritte: non le french fries, che poi sarebbero nate in Belgio ma questo è un discorso che faremo un’altra volta, intendiamo proprio le patatine quelle del sacchetto. Beh, pare che siano nate nel 1853 per sbaglio o, meglio, per una ripicca non riuscita.
Esasperato dalle lamentele di un cliente che gli rimandava continuamente indietro le patate perché erano tagliate troppo grosse, lo chef George Crum del ristorante newyorkese Moon Lake Lodge Resort le affettò così sottili da essere quasi trasparenti e assolutamente imprendibili con la forchetta, le buttò nell’ olio bollente e gliele portò credendo di fargli un dispetto, e non di creare quel capolavoro di gusto, calorie e colesterolo che sarebbe col tempo diventato la gioia di milioni di bambini e di dietologi di tutto il mondo.

Una quarantina d’anni dopo, nel 1892 un giovanissimo assistente dello chef del rinomato Cafè de Paris di Montecarlo aggiunse troppo liquore alla crêpe che gli era stato chiesto di preparare per il futuro re d’ Inghilterra Edoardo VII. Si decise di servirla comunque, e il giovane principe gradì così tanto che chiese al cuoco, che di certo non mancava di faccia tosta, come si chiamasse quella ricetta così buona. Guardando l’avvenenza dell’ospite che accompagnava il nobiluomo, il ragazzo battezzo il dolce crêpe princesse, ma il buon Edoardo, che non era certo in compagnia di una futura principessa, decise più democraticamente di battezzarla col nome proprio della ragazza. Suzette, ovviamente.

Perché come diceva John Lennon, la vita è quello che ti succede mentre stai facendo altri progetti. E noi, visto che nel frattempo i fagioli si son cotti, realizziamo il nostro progetto di mangiarceli alla vostra salute.